Personaggi Storici

Carlo Angelo Canossi

Nel 1837 Giacomo Canossi (Malegno 1785-Cedegolo 1857) padre di Carlo Angelo, (che allora aveva 13 anni), si trasferì con tutto il nucleo familiare, formato da 11 persone, da Malegno a Brescia in un appartamento in corso Stoppini, l'attuale corso Palestro' al 1° piano di una casa all'angolo con via Porcellaga.

Prima del 1857 Giacomo Canossi si trasferì a Cedegolo con la moglie Caterina Morelli di Demo, la figlia Giulia ed il figlio Francesco. L'altra figlia Maria si trasferì a Tavernole molto probabilmente perché sposata con persona di questa località.

Scorrendo i luoghi di nascita dei figli riusciamo ad appurare che Giacomo Canossi sino al 1831, anno di nascita di Girolamo, rimase in Malegno per poi trasferirsi a Demo, luogo di provenienza della moglie dove nacquero gli ultimi due figli, per poi portarsi a Brescia ed infine a Cedegolo in val Camonica, dove cessò la sua esistenza nell'aprile dei 1857.

I cinque figli di Carlo Angelo Canossi sono:

Angelo (Brescia 23.03.1862- 09.10.1943) "professore di belle lettere", come risulta dagli archivi, il più noto della famiglia Canossi, famoso per le sue raccolte di poesie dialettali e per aver fondato e diretto parecchie riviste: la più nota "Brixia" nel 1914.

II° Pietro (Brescia 01.08.1863- 23.11.1912) maestro elementare deceduto per "emorragia cerebrale" e padre di Guglielmo (Brescia 12.05.1886-18.02.1969) "perito gioielliere, agricoltore, padrone"

deceduto per "collasso cardiocircolatorio", avuto con la prima moglie Teresa Ferrari, mentre dalle seconda moglie Drusilla Richiedei (Saline di Viadana 1860-Brescia 1958) ebbe Teresa (Brescia 1897-1987) la quale sposò Luigi Melati (1891-1955). Da quest'ultima coppia nacque Elena, vivente, che è la custode, conservatrice e depositaria delle memorie della famiglia Canossi nonché preziosa fonte d'informazioni nella stesura dei presente scritto.

III° Faustino (Brescia 23.06.1865 - 28.01.1872) che morì di difterite in giovanissima età senza poter esprimere appieno la potenzialità del suo ingegno che già precocemente stava manifestandosi.

IV° Antonietta detta Maria (Brescia 25.08.1866-03.02.1919) che si diplomò come maestra elementare e dopo essersi dedicata alla cura dei congiunti, vivendo nella stessa casa, prese i voti ed entrò nell'ordine monastico delle Orsoline di Via Bassiche in Brescia con il nome di

Suor Francesca. Morì colpita da "spondilite cerebrale".

Giovanni Luigi (Brescia 24.08.1873-Varese 27.07.1921). Il 30 ottobre 1901 si trasferì a Milano. Dopo aver studiato pianoforte a Brescia con Paolo Chimeri (1852-1934) e Desiderio Landi (1855-1923) approfondì gli studi al Conservatorio di Parigi con Charles Wilfrid Beriot (1833- 1914). Morì durante un'operazione in ospedale a soli 48 anni lasciando la vedova appartenente alla famiglia

Sacconaghi di Varese con un figlio giovanissimo.

Il giornale "La Provincia di Brescia" pubblicò un lungo necrologio dal titolo: "Un lutto per l'arte - La morte di Giovanni Canossi" esaltando sia le doti di insegnante titolare della cattedra di pianoforte al Liceo Musicale Milanese, che quelle di concertista nelle prestigiose Sale Pleyel ed Erard di Parigi.

Il patriota

Carlo Angelo Canossi nei suoi 81 anni di vita, dei quali più di quaranta dedicati all'insegnamento nelle Scuole Civiche, non si limitò ad essere un didatta di chiara fama.

A ventiquattro anni seguì il prete patriota don Pietro Boifava di Serle (1794-1879) nella spedizione bresciana in Trentino per reclutare nuovi armati per la guerra d'insurrezione contro gli austriaci.

Fu ferito al capo poco lontano dal fiume Noce durante un combattimento, ma per sua fortuna non in modo grave in quanto la tela cerata e durissima dei cappelli da militare attenuò il colpo.

Però per tutta la vita si peritò di nascondere la cicatrice, dapprima sotto la folta capigliatura ed in seguito sotto il cappello o la berretta.

Di questa partecipazione ne fa fede la medaglia d'argento ottenuta nell'occasione con l'effige dei Sovrano "Vittorio Emanuele II Re d'Italia" sul recto, e dell'Italia con lancia e scudo con la scritta "Guerra per l'Indipendenza e l'Unità d'Italia" sul verso.

La medaglia è stata donata dalla pronipote prof. Elena Melati Canossi all'Ateneo di Brescia.



L'organista

Carlo Angelo Canossi, dopo le vicende belliche, con il diploma di maestro in tasca, iniziò ad insegnare.

Dopo Canton Stoppini abitò nelle vicinanze di S. Maria Calchera, e poté, in tal modo, esprimere il suo talento musicale in tale tempio, accompagnando la liturgia della messa ed altre funzioni sull'organo ivi locato, quale "sostituto provetto suonatore d'organo per supplenza di organisti ordinari" non solo in detta Chiesa, ma anche in altre.

Molto probabilmente l'ultimo figlio Giovanni, pianista concertista di fama, ebbe le prime lezioni dal padre.

Non siamo riusciti ad appurare dove Carlo Angelo Canossi avesse appreso i primi rudimenti musicali.

Molto probabilmente dalla moglie in quanto essa stessa "impartì lezioni di pianoforte" ed alla quale il futuro marito dedica un sonetto in occasione del compimento dei diciotto anni esaltandone il "genio musicale".

Dai documenti dell'archivio parrocchiale di S. Maria Calchera abbiamo saputo che il servizio organistico si avvalse di musicisti noti e di valore quali Baldassare Vacchelli (1805-1878), Pietro Zerbini e Guglielmo Borghetti, nipote dei cembalaro Borghetti, capostipite dal lato materno, dei F.lli Passadori, noti operatori nel settore dei pianoforti in Brescia.

In una nota contenuta nell'archivio accennato tra le spese sostenute il 5 giugno 1875 risultano pagate L.4,50 ai cantori ed all'organista per una messa cantata.

E' piuttosto difficoltoso trovare i nomi degli organisti in quanto il più delle volte venivano pagati direttamente dai benefattori non influendo così tra le spese della Parrocchia.

E' quindi fondamentale riferirsi a quanto viene tramandato oralmente o tramite scritture private, come nel nostro caso.



Il pittore

Carlo Angelo Canossi amava circondarsi di amici di un certo livello e valore culturale, specialmente pittori, quali Luigi Campini (Montichiari 1816 - Brescia 1890) socio dell'Ateneo di Brescia che eseguì il ritratto della moglie Teresa Viviani e Giuseppe Ariassi (Brescia 1825-1906) allievo di Hayez all'Accademia Brera di Milano e direttore della Pinacoteca Tosio di Brescia, che eseguì il ritratto di Carlo Angelo Canossi stesso.

Entrambi i dipinti sono all'Ateneo di Brescia, donati recentemente dalla prof. Elena Melati Canossi. Lo stesso Carlo Angelo Canossi fu "discreto dilettante di pittura paesaggistica", come recitano alcune indicazioni scritte fatteci pervenire e le testimonianze di quadri visti in dimore sia bresciane che malegnesi.

I possessori di tali opere, come risultano da informazioni segnalate con sicurezza, sono purtroppo morti e gli eredi sono parsi molto vaghi nel ricordare, per cui abbiamo ritenuto opportuno interrompere le ricerche in difetto di autorevoli riscontri.



Il maestro

Carlo Angelo Canossi, come abbiamo già appurato, insegnò per oltre quarant'anni nelle scuole pubbliche bresciane e precisamente nella sede principale in San Barnaba, già Scuola Elementare "Tiro Speri" ed attuale sede del Conservatorio Musicale "Luca Marenzio" in corso Magenta, a pochi passi dalla sua abitazione.

Per un lungo periodo fu distaccato alla succursale di Vicolo Stelle al N° 4 dove attualmente si trova l'A.A.B.- Associazione Artisti Bresciani, e già sede del Teatro Rovetta.

Anche dopo la sua morte le arti (non sarà di certo una casualità) non hanno abbandonato i luoghi in cui il Canossi ha operato, perché vediamo la musica in San Barnaba e la pittura in Vicolo Stelle!. Sono coincidenze straordinarie per la cultura e per la predisposizione alla didattica che furono predominanti nella famiglia Canossi tanto da contare ben diciotto insegnanti nel giro di alcuni anni.



Il metodo didattico innovativo

Il maestro Carlo Angelo Canossi il 16 marzo 1862 presentò all'Ateneo di Brescia il suo innovativo "Nuovo Metodo Meccanico Dilettevole per apprendere in breve ai fanciulli il leggere, lo scrivere, il numerare" la cui recensione fu pubblicata nei Commentari dell'Ateneo di Brescia per gli anni 1862, 1863, 1864 a stampa della Tipografia Apollonio MDCCCLXVI.

L'idea del Carlo Angelo Canossi, abbastanza rivoluzionaria in tempi di analfabetismo molto diffuso nella popolazione, era quella di accelerare i tempi di apprendimento per i "fanciulli" con un metodo che li potesse coinvolgere in quanto "il fanciulletto non è avvezzo ancora a disciplina, non è vago che di trastullarsi, è privo di cognizioni e di vocaboli ignaro dell'importanza d'apprendere; ma esso ad un tempo è studiosissimo dell'imitazione, sente vivamente l'emulazione, esulta se può fare da sé, se può fare da maestro".

Quindi sostituisce i fogli, che allora si usavano appendere alle pareti con gli alfabeti stampati, ed anche la lavagna, "tavola nera" dove il maestro scrive e cancella, ma che l'allievo non sa ancora usare per ripetere l'esercizio, con una "macchinetta" dove disporre le lettere scritte su assicelle mobili in modo che l'allievo possa apprendere in modo giocoso non accorgendosi della fatica, non si annoia anzi mostrando ai compagni il lavoro fatto fa egli stesso anche da maestro.

E possiamo in tal caso renderci conto come il Canossi abbia precorso i tempi inventando il metodo che sotto forma di tavolette di legno, di plastica od altro materiale ha invaso i negozi di giocattoli ed i reparti dei grandi magazzini dedicati ai bambini.

L'inventore di tutto questo è il maestro Carlo Angelo Canossi da Malegno non dobbiamo dimenticarlo!

A questo proposito non possiamo esimerci dal fare alcune considerazioni su quanto i bresciani siano operosi e geniali, ma nello stesso tempo incapaci di far valere queste loro capacità.

Basti ricordare che il primo che pose le basi per un metodo di scrittura diverso per i non vedenti basato nell'imprimere su cartoncino leggero dei punti fu il brescianissimo gesuita Francesco Lana Terzi (1631- 1687) molto prima di Luis Braille (1809-1852): la geniale intuizione è descritta nel "Prodromo" del Terzi pubblicato nel 1670.

Il liutista Vincenzo Capirola (Leno 1474-1548) descrisse per primo il modo di eseguire con la mano sinistra gli ornamenti e per primo stabilì norme sulle indicazioni dinamiche in musica: in alcuni testi gli vengono ancor oggi accreditate, ma con datazioni imprecise (indicando il secolo XVII), storici però più documentati non cadono nell'errore rendendo quindi giustizia al nostro Capirola.

Potremmo proseguire con altro esempi, ma ci accontenteremo di far sapere che quando nelle vetrine di negozi, specializzati e non, vediamo ancor oggi le tavolettine di legno colorato con le lettere dell'alfabeto, il nostro pensiero deve andare al maestro Carlo Angelo Canossi.

Ma non è finita!

Il Canossi, oltre a ridurre, con il suo metodo rivoluzionario, ad un anno l'apprendimento (solo i più fortunati andavano a scuola per due anni consecutivi e ne sanno qualcosa i nostri bisnonni che venivano tolti dalla scuola non appena appreso a "leggere, scrivere e far di conto"), pensò di agevolare i primi esercizi di calligrafia con la fornitura di fogli appositamente rigati "dove gli alunni scrivendo abbiano un assiduo suggeritore e correttore, quando la penna forvii dalla voluta pendenza, distanza e grandezza".

Non potrebbe esserci una migliore descrizione di questa utilità la cui applicazione vediamo nelle vecchie lettere che ora hanno lasciato il posto non solo ai computer, ma anche ai messaggini dei telefonini.

In appendice pubblichiamo i documenti autografi inerenti al "Metodo".

Qualora agli attenti lettori dovesse risultare un modo diverso d'interpretazione riguardo al "Metodo Meccanico", non essendoci pervenuto il "manufatto", ci sarà data l'opportunità per una seconda pubblicazione ed un modo significativo per rinnovare il ricordo di quanto ha fatto il maestro Carlo Angelo Canossi.



La consacrazione

Già l'"Alba", pubblicazione ebdomadaria di informazioni scientifiche e letterarie, l'11 settembre 1858 aveva pubblicato un lungo articolo a firma C.A.T. dal quale stralciamo alcuni brani significativi sul nuovo sistema d'insegnamento: " ..... al quale l'amorevole maestro consacrava pazienza, fatica e fors'anco qualche dispendio, esso riportava di recente bene meritato elogio dalla Superiorità Scolastica di Lombardia .......... " , ".... Possa il plauso dei suoi simili renderlo soddisfatto; esso è il sig. Canossi Carlo Angelo maestro di prima classe elementare, sezione inferiore, nelle scuole di S. Faustino in Brescia".

Il metodo del maestro Canossi trovò l'Accademia Bresciana favorevole all'applicazione tanto che incaricò, una speciale commissione per esaminarne il contenuto. Ed il 14 marzo 1869 così si esprimeva: "L'Ateneo intende fin da quest'anno di assegnare alcuni premi per promuovere l'istruzione elementare.



Lo scrittore

Nel 1877 per le Edizioni Apollonio di Brescia uscì il volume dei maestro Carlo Angelo Canossi dal titolo: "Abbici di facile e piacevole applicazione per imparare prontamente a leggere".

Questo volume, in 8°, risulta però stampato come seconda edizione il che ci fa ovviamente supporre che la prima sia stata edita in data precedente.

Presso la Biblioteca Queriniana di Brescia, catalogato al n° 44E15 troviamo un'altra pubblicazione del Carlo Angelo Canossi repertata al n° 24562 del 1958 un "'Vocabolarietto" (etimologie, famiglie di parole, frasi idiomatiche, proverbi), a cura della casa editrice "Vita Scolastica" di Brescia. Non siamo riusciti a reperire, nonostante le ricerche più approfondite, notizie né sulla data di pubblicazione, ne sulla casa editrice di questa interessante pubblicazione che consta di ben 163 pagine.

Di questi due volumi, purtroppo. esistendo una sola copia presso la Biblioteca Queriniana di Brescia sarebbe augurabile, visti i moderni sistemi di riproduzione e di stampa, poter disporre di una quantità di copie ariastatiche tali da coprire almeno le biblioteche pubbliche di Brescia e Provincia, affinché gli esemplari degli archivi della Queriniana non rimanga no unici.

Tra le carte dimenticate in un cassetto della scrivania dei Carlo Angelo Canossi è stato rintracciato un suo ingiallito autografo titolato: "Applicazione Facile e Piacevole per Imparare a Leggere" "Seconda Edizione Riveduta e Semplificata dall'Autore", con il frontespizio vergato a matita datato 1899.

Con una successiva annotazione in china il titolo viene rettificato in: "Facile e Piacevole, breve applicazione per imparare a leggere".

Il manoscritto di 24 pagine intera- mente in inchiostro di china nero si conclude con una interessante annotazione: "Esercizi di lingua per evitare i più grossolani errori grammaticali tanto parlando che scrivendo".



Il decesso e la sepoltura

Carlo Angelo Canossi cessò di vivere ad ottantuno anni, il 28 dicembre 1905, nella sua casa di via Carlo Cattaneo per "prostatite e successivo marasmio" come cita un documento municipale.

Essendo il nome dei Carlo Angelo Canossi compreso nell'elenco dei benemeriti che dovevano essere inumati con gli onori dovuti nella tomba riservata ai "Prodi Bresciani" caduti delle X Giornate, nel Cimitero Monumentale, il Comune di Brescia, nell'occasione, informò la famiglia di soprassedere all'acquisto della tomba.

Nei documenti ufficiali ricavati dalle ricerche effettuate presso il Cimitero Vantiniano, nella scheda 101, viene notificata la data della morte, 28 dicembre 1905, e l'inumazione avvenuta nei loculi sotto il Monumento ai "Prodi Bresciani", portico VI, firmato sul basamento "L. Pagani/1879 Milano.

Tratto da: "Carlo Angelo Canossi 1824-1905 Insigne Pedagogo di Virginio Cattaneo. Comune di Malegno Assessorato alla Cultura".

On. Aldo Caprani

Aldo (Romualdo) Caprani nacque a Malegno in via Lauro il 10 gennaio 1899 da famiglia borghese di orientamento laico e risorgimentale.

Il padre Giovanni, ingegnere, aveva vissuto con entusiasmo la fase immediatamente post-risorgimentale, aveva assunto in paese incarichi di sindaco e di consigliere comunale rendendosi promotore di alcune opere pubbliche destinate a caratterizzare il futuro della comunità. La mamma, Caterina Pedercini, era anch'essa di famiglia benestante (la fontana di via Valarno era chiamata "la fontana dei Pedersì").

Il giovane Aldo crebbe "nel culto del dovere e della solidarietà", studiò a Lovere dove ottenne la maturità classica e si laureò in Legge a Pavia (la tesi di laurea andò però distrutta insieme al suo studio in occasione di un'irruzione squadristica), avviandosi presto alla carriera legale. Il suo destino incrociò però il 1° conflitto mondiale che gli fece maturare progressivamente una coscienza pacifista e antimilitarista (1).

Nell'immediato primo dopoguerra Aldo Caprani aderì al Movimento degli ex-combattenti fondato dal brenese Guglielmo Ghislandi e da Augusto Monti. Poi con Ghislandi, Emilio Lussu e Gaetano Salvemini maturò via via un orientamento socialista che lo portò, nel giro di pochi anni, a scegliere il comunismo come utopia storicamente realizzabile.

Nel 1925-1926, quando il regime fascista si era ormai imposto con la violenza (2), Caprani diventò il responsabile dei nuclei clandestini del Partito Comunista d'Italia per la provincia di Brescia, mentre il suo studio professionale di Brescia veniva assaltato e devastato con il solito rito fascista del getto degli incartamenti e del mobilio dalle finestre e rogo finale.

L'Avv. Aldo Caprani dovette così adattarsi ad una vita grama e all'emarginazione dall'ambiente professionale. La casa paterna di Malegno dovette essere venduta. La famiglia si trasferì in una casetta situata nei pressi dell'attuale sede della filiale di Malegno della Banca di Valle Camonica. Farsi una famiglia era diventato per Aldo Caprani, come per tanti altri militanti politici antifascisti, un rischio insostenibile (3).

Con un escamotage riuscì a fuggire in Francia dove si unì ai gruppi dei "fuoriusciti" antifascisti italiani e di mezzo mondo. Là si iscrisse alla Sorbona dove conobbe e frequentò personaggi del calibro di Palmiro Togliatti e Mao Tze Tung e per mantenersi si adattò a fare il muratore, il "picador" (colui che preparava le scanalature per incassare i cavi elettrici) e il boscaiolo. Sorvegliato e spiato dalla polizia segreta fascista cercò di arruolarsi nelle milizie volontarie accorse a difendere la Repubblica spagnola, ma venne scartato per un vizio cardiaco.

La Spagna cedette nel 1939 sotto il tallone di ferro e fuoco del "franchismo", sostenuto da Hitler e Mussolini e, poco dopo, anche la Francia venne occupata dalle truppe naziste.

Insieme al gruppo dirigente antifascista rifugiato oltralpe Caprani venne internato nel campo di concentramento di Vernet finchè non fu rimpatriato, in regime di sorveglianza, sulla scorta di un accordo tra la Ghestapo e Mussolini.

Per sopravvivere prese contatto con l'avvocato Cesare Vaiarini di Manerbio, figlio di una sorella di sua madre il quale lo accolse nel suo studio; quando arrivò a Manerbio, tuttavia, l'avv. Cesare Vaiarini era morto da pochi giorni, cosicché la vedova gli affidò lo studio legale grazie al quale potè riprendere l'attività professionale.

Quando scattò l'armistizio (8 settembre 1943) Aldo Caprani era a Como con Leonida Bagarelli. Rientrato in Val Camonica trovò rifugio in Valsaviore e partecipò alla formazione della 54° Brigata Garibaldidi cui fu il Commissario politico (4).

Dopo la Liberazione l'avv. Aldo Caprani venne eletto consigliere comunale della città di Brescia, la cui amministrazione fu presieduta dal brenese Guglielmo Ghislandi, primo sindaco della città liberata.

Alle elezioni del 2 giugno 1946 fu eletto anche deputato all'Assemblea Costituente, incaricata di redigere la Carta costituzionale della nuova Repubblica.

Alla "Costituente" l'On. Avv. Aldo Caprani si occupò anche di cose "minute" come quelle riguardanti il problema degli alloggi, dell'epurazione, dei convitti per i figli dei partigiani e combattenti, della situazione degli stabilimenti bresciani, della situazione giudiziaria provinciale, degli usi civici, dello sfruttamento idroelettrico delle valli, ecc.

Con Ghislandi promosse ad Edolo la scuola tecnico-forestale "Meneghini", voluta dalle cooperative dei boscaioli. Pubblicò il periodico "La voce della Valle Camonica".

Caprani venne meno l'11 agosto del 1947 a causa dell'aggravamento del difetto cardiaco, evidentemente trascurato nelle vicende di una vita avventurosa e spericolata.

Negli anni immediatamente successivi si svolsero alcune intense commemorazioni.

Nel cimitero di Malegno esiste ancora oggi il loculo perenne dedicato all'unico Deputato della storia di Malegno.

Negli anni seguenti subentrò però la dimenticanza e per certi versi la rimozione dalla memoria collettiva.

Negli anni '80 del secolo scorso l'Amministrazione comunale gli ha intitolato il tratto di via che collega il centro storico del paese al bivio per Lozio.

Il Prof. Gregorio Baffelli ne ha ricostruito la biografia umana e politica nel numero del marzo 1985 de "Le voci di Malegno".

Il Circolo Aldo Caprani di Malegno, costituitosi per raccogliere la sua testimonianza civile e politica, ha pubblicato nel gennaio 2004, in collaborazione col Circolo Culturale G. Ghislandi, gli atti delconvegno su "Aldo Caprani: dagli ideali risorgimentali all'Assemblea Costituente", svoltosi a Malegno il 18 dicembre 1999, con una corposa relazione dello storico Mimmo Franzinelli.

1 - Nella sola rotta di Caporetto si contarono 11 mila morti e 29 mila feriti tra i soldati italiani. I prigionieri furono 280 mila e i soldati in rotta 350 mila. I generali reagirono ordinando le "decimazioni" e in questo modo centinaia e centinaia di soldati scelti a caso vennero fucilati per alto tradimento.

2 - Nel solo 1923 vennero sciolti più di 500 Consigli comunali e decine di Consigli provinciali con l'impiego del commissariamento degli enti locali.

3 - "Sposò la causa della povera gente e ne ebbe un crescendo di persecuzioni che sopportò con animo fermo, confortato dalla certezza incrollabile della vittoria finale". (G. Baffelli, in "Le Voci di Malegno", marzo 1985)

4 - Per approfondimenti vedere in "La Baraonda" di Mimmo Franzinelli- Grafo Ed. Brescia

Padre Zaccaria Casari frate cappuccino

P. ZACCARIA da Malegno(al secolo Battista Casari) nacque il 21 ottobre 1861, nella contrada vicina alla chiesetta di Santa Maria in capo al ponte di Cividate.

A 22 anni si fece frate cappuccino nella Provincia Lombarda ricevendo, nel dicembre 1889, l'ordinazione sacerdotale.

Cinque anni più tardi, nel novembre 1894, partì per le missioni del Nord Est del Brasile.

Religioso di grande pietà e di ardente zelo, operò attivamente per la faticosa evangelizzazione delle popolazioni native, visitando e portando aiuto alle piccole comunità sperdute nella foresta.

Conosciuto in quelle vaste estensioni con il nome di "Padre Santo", il 13 marzo 1901 fu massacrato (mentre si trovava in chiesa per la celebrazione della santa Messa) ad Alto Alegre, nello stato del Maranhâo, insieme a tre Confratelli, due Terziari, sette suore Terziarie Cappuccine della nascente comunità fondata dalla beata madre Francesca Rubatto e l'intera missione composta da circa 250 cristiani: autori dell'eccidio furono un gruppo di indios appartenenti a varie tribù.

Tratto da: "Opuscolo sul convegno di studio in ricordo di -Padre Zaccaria Casari- Frate Cappuccino".

Girolamo Lorenzi

GIROLAMO LORENZI Giacomo Girolamo Lorenzi nacque a Malegno il 14 gennaio 1847, figlio primogenito del negoziante Pietro (Villa di Lozio 1821 - Malegno 1883) e della cucitrice Maria Giovanna Simonetti (Malegno 1813 - 1883), entrambi appartenenti a famiglie di modesta estrazione sociale e di tenui possibilità.

Il padre, originario di Lozio, dopo aver soggiornato a Breno insieme allo zio paterno Giacomo (Villa di Lozio 1775 - Malegno 1847) dedito al mestiere di artigiano battiloro, si era stabilito a Malegno negli anni quaranta del secolo aprendo un'insegna di generi da pizzicagnolo.

Il ragazzo Lorenzi, dopo aver frequentato un corso di retorica tenuto a Cividate da don Giovan Maria Parigi (Malegno 1813 - Cividate 1881), laureato in lettere a Pavia ed a lungo insegnante nel collegio Mercanti di Pisogne, appena quattordicenne seguì la vocazione sacerdotale varcando il portone del Seminario di Brescia e ricevendo, il 16 marzo 1861, la tonsura. Dopo qualche mese Girolamo mutava proposito, lasciando la veste per orientarsi verso la preparazione all'insegnamento. Sostenuto positivamente l'esame per il conseguimento della patente di maestro elementare, ottenne presso l'università di Pavia il diploma che lo abilitava ad insegnare italiano, storia e geografia nelle scuole tecniche. A soli vent' anni, nel 1867, spinto da un contagioso entusiasmo innestato su un animo profondamente religioso, fondava in Brescia, insieme a BasilioCittadini (Pilzone 1845 - Buenos Aires 1921), il settimanale strettamente culturale, a sfondo letterario, "La Voce dei giovani" che verrà pubblicato per una manciata di numeri, caratterizzandosi per alcuni contenuti essenziali quali la necessità per la gioventù di coltivare i buoni studi e l'amore per la virtù, la convinzione della perfetta coincidenza tra il bello e il buono, la difesa della purezza della lingua patria, l'ottica secondo cui la letteratura è espressione della civiltà di un popolo e strumento incisivo per l'educazione personale e universale. Nel corso della breve esperienza egli infuse alla rivista un'impronta decisamente cattolica, provocando il ritiro dall'impresa del focoso Cittadini che ormai aveva spiegato la velatura diretto verso altri lidi, per andare a collocarsi su posizioni liberali, nel composito entourage di un politico emergente qual era l'avvocato Giuseppe Zanardelli (Brescia 1826 - Maderno 1903), tanto capace quanto spregiudicato.

Risalgono a quest'epoca contatti di Girolamo con l'avvocato Giuseppe Antonio Tovini.

Nel gennaio 1868 usciva a Brescia il primo numero del quindicinale "religioso, politico, letterario" "II Giovane Cattolico", promosso con fervore dal Lorenzi allo scopo di diffondere uno strumento che "fosse dedicato alla cattolica gioventù e(...) scritto da giovani accesi d'amore per la causa della Religione, della Chiesa, del Pontefice e indirizzato specialmente ai loro compagni d'età, di speranza e di fede". Egli fu il principale redattore del settimanale destinato a durare per un biennio, riscuotendo l'apprezzamento di Mario Fani (Viterbo 1845 - Livorno 1869) e l'incoraggiamento di Pio IX espresso con lettera del 30 gennaio 1869: battagliero e audace, il foglio ebbe polemiche al calor bianco con la massonica "Gazzetta di Brescia", nata sulle ceneri dell'"Eco del Popolo".

Nell'ambito di questa esperienza il Lorenzi ebbe modo di intessere collaborazioni con diversi intellettuali del calibro dell'erudito don Antonio Lodrini (Brescia 1812- 1885), del filippino Giuseppe Chiarini (Brescia 1812 -1890), di don Luigi Francesco Fè d'Ostiani (Brescia 1829 -1907), del camuno don Nicola Ercoli (Bienno 1831 -1892), che brillerà in seguito per alcuni lavori di carattere teologico, del famoso poligrafo comasco Cesare Cantù (Brivio 1804 - Milano 1895).

Nell'ottobre del 1868 Lorenzi propose la creazione di un'associazione di studenti italiani allo scopo di favorire "non solo la professione della Fede Cattolica, ma anche la diffusione, l'incremento dei buoni studi". Inoltre ebbe mano nelI'istituzione a Brescia del Circolo dei Santi Faustino e Giovita, il cui statuto verrà approvato nell'aprile 1869. Nell'agosto del 1869 partecipò al tentativo di fondazione di un quotidiano cattolico, non andato oltre l'uscita di un numero saggio sotto il titolo de "Il buon cittadino", diario della città e provincia di Brescia.

Frattanto coltivava freneticamente la letteratura di taglio popolare, voltando contenuti religiosi in prosa e poesia: soprattutto venne attratto dal tema mariano che stava vivendo una rifioritura dopo la proclamazione del dogma dell'Immacolata e che gli ispirò versi delicati, stimolandolo a progettare un Florilegio di componimenti tratti da diversi autori. Nel 1868 ultimava il lavoro Piccarda Donati, prima di una discreta serie di operette "elogiate da reputati giornali e periodici d'ltalia, di Francia, d'lnghilterra e di Germania", tra cui anche L' aguzzaingegno, un ventaglio di aneddoti, motti, facezie e burle mutuato dalla tradizione giocosa del '500; egli aveva in animo di scrivere una dissertazione sull'umorismo e una Enciclopedia bizzarra e da ridere, circostanza che getta qualche luce su un aspetto singolare della sua personalità, forse risalente al sano atteggiamento dei Padri della Pace che con l'allegrezza e il buonumore guarnivano il loro metodo scolastico.

L'impellente necessità di trovare una dignitosa occupazione e di mantenersi agli amati studi lo spinse a spostarsi da un centro all'altro, in impieghi legati all'insegnamento: il ginnasio comunale "Schena" di Castiglione delle Stiviere (ove fu anche alunno), le civiche scuole tecniche pareggiate di Asola, l'istituto tecnico "Principe Amedeo" di Monza e il commerciale "Dupin" di Milano. Nel 1870 si trasferì stabilmente nel capoluogo lombardo, dove divenne segretario di istituzioni culturali; aprì una libreria antiquaria, esercitò le attività di bibliotecario e di precettore a favore di studenti liceali appartenenti ad "illustri" famiglie. Frequentò assiduamente l'archivio di Stato, attorno al quale si raccoglieva uno scelto grumo di notabili illuminati e di studiosi delle discipline storiche capace di dar vita nel 1874 alla Società Storica Lombarda.

Seguì i corsi dell'Accademia scientifico-letteraria meneghina allo scopo di conseguire la laurea in lettere e filosofia, desiderio vanificato da ristrettezze economiche.

Acquisì comunque la padronanza perfetta della lingua francese, imparò inglese e spagnolo; fu in grado di impartire con facilità lezioni di latino, greco, italiano, storia e geografia.

L'intenso rapporto con le belle lettere lo portò ad ottenere l'aggregazione a numerosi circoli culturali: divenne membro benemerito della Società di Fraterna Beneficenza fra gli insegnanti primari d'Italia in Torino, effettivo; dell'Universale Accademia dei Quiriti di Roma ed ordinario della Società Magnetica d'Italia; socio onorario dell'Assemblea di storia patria di Palermo, del Gabinetto scientifico di Ragusa, dell'Associazione promotrice delle arti e mestieri di Fiume, dei Concorsi Poetici di Bordeaux, delle Società Italiana di storia ed archeologia di Asti e EI-Chaik di Costantinopoli, delle accademie Florimontana degli Invogliati di Monteleone e degli Abbozzati di Sezze, di scienze e lettere di Catanzaro e Niccolò Machiavelli di Firenze; corrispondente delle accademie del Progresso di Palazzolo Acreide (Siracusa), della Valle Tiberina Toscana di San Sepolcro, Peloritana di Messina, delle scienze di Acireale, Artistica Raffaello di Urbino e dell'Ateneo di Bassano; presidente onorario dei Marini di Beaucaire, socio fondatore del Circolo Giambattista Vico di Napoli e del collegio, sociale Principe Umberto di Carpi.

Nel luglio 1875, con l'intento di conseguire "la cara soddisfazione di esercitare la propria missione educatrice presso la dolce terra natale", inviò richiesta di essere ammesso al concorso per il posto di rettore del collegio municipale attivato a Pisogne nel 1819 in esecuzione a lascito disposto dal sacerdote don Giacomo Mercanti. Purtroppo per il Nostro la direzione venne affidata al professor Agostino Candelo di Racconigi, docente a Dogliani.

Sfumata questa interessante occasione ed iniziando a manifestarsi problemi di salute, fu costretto a tornare definitivamente al paese nativo al fine di "vivere nella propria famiglia, come sempre desiderò, e in pari tempo soccorrere i genitori bisognevoli e già cadenti, coll'assistenza morale e materiale". Era il 1878".

Nel 1878 fece istanza al Consiglio superiore della Pubblica Istruzione per il conseguimento dell'abilitazione all'insegnamento classico e storico nelle scuole medie. Nella primavera aveva rifiutato un non meglio indicato impiego in Roma procuratogli da "persona antica". In ottobre, inciso dal male che prendeva a corroderne inesorabilmente la diafana fibra, implorava, nell'accorata domanda di partecipazione al concorso per disimpegnare la titolarità di una cattedra presso il ginnasio municipale e scuola tecnica pareggiata di Breno, gli venisse concesso di continuare "con amore in quelle mansioni che da tanti anni esercita a bene della Gioventù, alla quale consacrò ogni suo studio, ingegno e fatica", di poter seguire ancora l'autentica missione della sua vita, quella del maestro cattolico, condita da un grado eccellente di umanità affinatosi alla quotidiana palestra delle privazioni.

Ottenne il posto e lo mantenne per qualche tempo insegnando italiano e, a beneficio di alcuni alunni, latino. Dopo questa docenza non si hanno più notizie di ruoli pubblici ricoperti dal Lorenzi. La sua esistenza, già disseminata di difficoltà, precipitò nello sconforto nel 1881 per la chiusura delle scuole brenesi; subì poi un brutale sconvolgimento nella primavera del 1883 a seguito della scomparsa del fratello trentaquattrenne Giovan Maria (malato da anni e morto in circostanze tragiche il 9 aprile), del padre e della madre, deceduti a distanza di due soli giorni l'una dall'altro, il 16 e il 18 maggio, "tutti rassegnati alla divina volontà".

Girolamo visse gli ultimi anni appartato, nella solitudine intellettuale e nella sofferenza, assistito dalla sorella Fiorenza e dal fratello Elia (1856 - 1910).

Il 31 maggio 1898, martedì di Pentecoste, Girolamo moriva "repentinamente", sfinito dai ripetuti attacchi della subdola infermità "cronica".

Tra le sue opere: Piccarda Donati(1868); Il novelliere italiano annotato (1870); Cola Montano.

Studio storico (1875); Il Carroccio. Sue origini e vario uso nel medio evo (1876); Firenze nel secolo di Dante(1876).

Tratto da: "Atti del convegno di studio in ricordo di -Giacomo Lorenzi Malegno, 10 aprile 1999- Quaderni della "Fondazione Camunitas - Breno (Bs)" Malegno 10/4/99 "

Marianna Vertua

Tempi in cui visse

Nei luoghi dove vissero i Santi, c'è un; aria speciale, diversa da quella che si respira altrove.

Non so come spiegarmi meglio, ma provate ad andare, per esempio, ad Assisi, e ditemi, se vi riesce di liberarvi, dalla suggestione francescana. Andate a Lovere, e vedete un po' se in certe stradette che conservano, (almeno 10 spero, dati i tempi iconoclasti che corrono!) il profumo di anni remoti, non avete l'impressione di dover incontrare; appena svoltato l'angolo, la giovanissima Bartolomea Capitanio e l'austera Vincenza Gerosa, dirette frettolosamente alla Chiesa di S. Giorgio.

Anche chi delle due Sante ignora quasi tutto, misteriosamente è colto dall'inquietudine spirituale che la Santità diffonde e lascia dietro di sé, ed è indotto a considerazioni e riflessioni particolari. Quando, anni fa, dimorai per qualche giorno a Lovere, ospite proprio della Canonica di S. Giorgio, indugiando talvolta nella Cappella che fu sede dell'Oratorio dove la Capitanio radunava le giovani del paese, mi veniva fatto di immaginarla affollata, colma del brusio delle preghiere recitate in comune, la cui eco non si era spenta del tutto fra le pareti antiche, e di invidiare chi era vissuto allora, contemporaneo della Santa; e aveva potuto godere l'irradiazione benefica del suo amore verso Dio e verso il prossimo.

Tempi duri, quelli in cui fiorì la santità della Capitanio! Quando il Manzoni, ne11821, definì il settecento e l'ottocento "due secoli - l'un contro l'altro armati", non sapeva fino a the punto avesse indovinato, ma ben 10 sappiamo noi, voltandoci indietro a considerare gli avvenimenti turbinosi di quegli anni!

Nel settecento c'era stato il trionfo dell'illuminismo che pretendeva di risolvere tutti i problemi umani coi soli lumi della ragione, al di fuori della Religione, respinta come una dottrina inutile; c'era stata la rivoluzione francese che aveva abolito la Religione, perseguitando i preti ed il Papa, e queste idee deleterie, avevano varcato le Alpi, si erano diffuse fra noi, penetrando ovunque.

Anche senza la radio e la televisione, ancora di là da venire, le idee si diffondevano come si diffondono i germi delle malattie infettive e delle epidemie, misteriosamente, si direbbe, portate dal vento, e attecchivano negli animi semplici, incapaci di critica.

Bisogna tenere anche conto delle condizioni economiche del popolo, e della miseria: in Italia l'età della macchina si preannunciava appena e masse ingenti di artigiani stentavano la vita.

Se il problema degli adulti era grave, preoccupante era quello dei fanciulli, abbandonati a sé, quando non erano costretti a lavori inumani, destinati a crescere come bestie.

Ma la Provvidenza vegliava e suscitò una ammirevole schiera di Santi che si presero a cuore l'assistenza dei fanciulli e dei giovani, dando vita ad opere straordinarie, che durano tuttora.

Dapprima ci si preoccupò della gioventù maschile, ed era ovvio, ma ben presto si capì che urgeva provvedere anche alla formazione morale e religiosa delle fanciulle.

Maddalena di Canossa, che l'8 maggio 1808 inaugurò a Verona il suo primo Oratorio, soleva dire che salvare le fanciulle significava salvare la società, perché sarà sempre vero che, buona la donna, sarà buona l'umanità.

Diceva anche che l'avvenire dei popoli è nelle mani di chi ammaestra la gioventù.

Se qualche storico si occupasse del problema, e narrasse come uno stuolo di Santi e di Sante operò per impedire la rovina di tanti giovani, dalla fine del settecento per tutta la prima metà dell'ottocento, noi vedremmo in atto, come in una sequenza cinematografica, il lavorio della Provvidenza, intesa a porre silenziosamente rimedio ai mali apportati dalla stoltezza umana; ma finora, nessuno è stato tentato dal ponderoso tema, ed è davvero un peccato!



Primi incontri con suor Bartolomea Capitanio

Quando Bartolomea Capitanio nacque in Lovere, il 13 gennaio 1807, sull'Europa e sull'Italia brillava la stella di Napoleone, in rapida ascesa verso il suo breve zenit. Lovere era un angolino del regno d'Italia, che aveva molto sofferto nelle turbinose vicende degli anni precedenti, e ancora avrebbe sofferto. Posta al centro di quattro valli, Cavallna, Seriana, di Scalve, Camonica, era battuta da truppe austriache e francesi, diveniva facilmente sede di concentramenti di soldati e di feriti.

Di queste vicende non poté soffrire molto, data la sua età, la Capitanio, ma ne soffrì profondamente Vincenza Gerosa, che fu indotta a consacrarsi a Dio quasi per riparare agli iInsulti che contro di Lui e contro la Chiesa era costretta ad udire.

Nel 1814, Lovere era mal ridotta: per di più vi furono forti nevicate, nebbie, pioggie torrenziali, che resero scarsi i raccolti. Anche il 1815 fu un anno di sciagure e di carestia fortissima. Più pauroso ancora fu il 1816, perché agli altri ,mali si aggiunse la moria del bestiame.

Nel 1817, scoppiò la peste.

La Capitanio aveva dieci anni appena, ma la Gerosa, nata nel 1784 era nel fiore degli anni.

Mossa da zelo ardente di carità, cominciò a raccogliere le bimbe che scorazzavano per le strade, accompagnandole a casa sua, intrattenendole, aiutandole ed istruendole.

Conobbe così anche la Capitanio, e forse fu lei che ottenne la grazia di far la Comunione a dieci anni e di entrare nel convitto delle Clarisse. C'era infatti a Lovere un antico Monastero di figlie di S.Chiara; era stato fondato nel 1557 dalla nobile Signora Afra Bazzini, ma nel 1798 era stato chiuso.

Scomparso dalla scena politica Napoleone e restaurato in Lom- bardia il dominio austriaco, il Vescovo Nava fece tornare a Lovere, nel 1817, le Clarisse, che acconsentirono, secondo l'imposizione della legge, ad aprire una scuola per giovinette.

L'11 luglio 1818 vi fu accolta Bartolomea Capitarnio, fatto di capitale importanza per la formazione spirituale della futura Santa.

Ella infatti risentì profondamente l'influenza della direttrice, suor Maria Francesca Parpani, e in tutta la sua attività, in seguito, dimostrò di essere guidata dallo spirito francescano che impone di giovare non solo a se stessi, ma anche agli altri: non sibi soli, sed aliis...

Non possiamo dilungarci molto sulle vicende della Capitanio, ben note a tutti, ma dobbiamo mettere in rilievo particolarissimo, il fatto che in collegio strinse amicizia con una giovinetta della sua stessa età, Marianna Vertua, di Malegno.

Quando Bartolomea, nel 1824, rientrò in famiglia, per iniziare l'apostolato e le attività che la condurranno alla fondazione del vagheggiato Istituto, non allentò i rapporti con le compagne di collegio, anzi, li rafforzò con una corrispondenza assidua, e altri ne intrecciò con anime assetate di elevazione spirituale, tanto da farci pensare che da Lovere la santità di Bartolomea si irraggiò mirabilmente su tutta la regione circostante, lasciandovi un'impronta indelebile.

Ancora quasi adolescente, riuscì a dirigere schiere innumerevoli; di anime, cui comunicava i suoi tesori spirituali generosamente. Aveva stabilito per sé le preghiere di ogni giorno e di ogni settimana, scriveva speciali novene e le diffondeva.

Organizzò mirabilmente l'Oratorio e ne diffuse gli statuti, sì che anche altrove potessero sorgere istituzioni simili.

Fondò la Compagnia di S.Luigi, la Compagnia dell'Amore di Gesù, un'altra Compagnia intitolata al S. Cuore di Gesù, l'Unione dell'Addolorata e infine l'Unione dei SS. Cuori di Gesù e di Maria, per giungere alle anime religiose e sacerdotali. Queste compagnie non erano destinate a Lovere soltanto, ma a tutti i paesi circostanti, specie a quelli della Valcamonica dove la Capitanio contava amiche elette.

Per di più, se la famiglia del padre era originaria della VaI di Scalve, la madre proveniva da un paesino della Valcamonica, perchè era originaria di Lozio, figlia di Giacomo Canossi e Caterina Vanoli, nati entrambi lassù, nella bella conca dove nasce il Lanico. Bartolomea scriveva con grande facilità ed i suoi scritti passavano di mano in mano, ricopiati, meditati, custoditi anche da piissimi sacerdoti.Possiamo ben immaginare che tesoro fossero le sue lettere per i fortunati che le ricevevano! Furono conservate gelosamente, sebbene non tutte ci siano pervenute.



La scelta dello stato laicale

Uno che se ne intendeva, scrisse che "nessuna fonte storica ha la vivezza e la capacità di comunicazione immediata di un epistolario". Infatti "è attraverso le lettere private, personali, a parenti ed amici che si attinge più profondamente all'animo di un uomo, fino a sentirlo vivo, attivo e pensante".

Si potrà obiettare che noi abbiamo raccolto solo le lettere della Capitanio, quindi, esse servono a farci conoscere più intimamente soltanto la Santa, ma si può benissimo rispondere che dalle lettere di Bartolomea è facile arguire che cosa chiedesse, che problemi ponesse, che levatura spirituale avesse l'interlocutrice, cosicché l'epistolario della Capitanio ci dà una serie, per così dire, di mirabili ritratti femminili, ci fa conoscere anime beatissime che operano in Valcamonica, contribuendo a creare quel particolare clima di cui ancora si avverte il profumo e il calore.

Lasciando da parte Lucia Cismondi abitante a Breno, le sorelle Romelli di Cividate, Maria Do di Montecchio, Girolama Taboni di Pian di Borno, ed altre ancora, la corrispondente più fida, di cui si ha un notevole numero di lettere, è Marianna Vertua,. nata a Malegno il 24 Febbraio 1807, due mesi circa dopo la Capitanio.

Ma visse ben più a lungo di lei, essendo morta il 24 Dicembre del 1878, in odore di santità, come afferma un biografo di Bartolomea.

Dio le concesse di sopravvivere lunghi anni all'amica diletta perché si profondesse in opere buone.

Nel suo atto di morte la Vertua è definita "donna ammirabile per le sue virtù, carissima a tutti per la sua ardente carità Verso Dio e verso il prossimo", parole che potrebbero attagliarsi benissimo a Bartolomea. Questa ebbe la grazia della vocazione, e solo la morte le Impedì di vestir l'abito religioso nell'istituto da lei fondato: la Vertua condusse in mezzo al mondo una vita immacolata e santa, consacrata al Signore nello stato di verginità.

Esaminando le lettere che le indirizzò la Capitanio, vedremo come l'animo della Vertua fu profondamente tormentato dal difficile problema della scelta dello stato.

Rimaner nel mondo ? entrare in monastero ?

L'una e l'altra via aveva il suo fascino ed era ricca di meriti. La vita nel chiostro le avrebbe permesso di godere le gioie dell'unione con il suo Dio, ma avrebbe dovuto lasciar da parte il gran bene che andava facendo al suo paese, a profitto della gioventù e dei poveri.

La vita nel mondo le avrebbe concesso di praticare tutte le opere di carità, ma l'avrebbe distratta dalla perfetta unione con Dio...

Era il dilemma in cui si era dibattuto S. Francesco, quando aveva chiesto a frate Silvestro e a suor Chiara di interrogare per lui la volontà di Dio, e aveva risposto che non doveva vivere unicamente per sé, ma anche per gli altri! Era lo stesso dilemma che la Capitanio sentì e risolse fondando un istituto "nel quale si pensa -scriveva alla Verta- di unir la vita contemplativa con tutti gli atti di carità che si possono prestare al prossimo", perché, affermava, "io sono innamoratissima della vita ritirata e religiosa, ma d'altronde troppo mi piace l'impiegarmi in opere di carità sia spirituali che temporali, le quali in un monastero non si possono esercitare...".

Era quello che piaceva anche alla Vertua, che finì per rimanere nel mondo.

Forse se Bartolomea fosse vissuta più a lungo, l'avrebbe convinta ad entrare nel suo amatissimo istituto, o forse avrebbe capito che l'amica era necessaria a Malegno.



Malegno e la valle Camonica nella prima metà dell'ottocento

Abitava in Via Ponte, nella parte antica del paese, ove si trovano ancora tracce dell'origine romana della località.

Quì, oltre al naturale impulso del cuore, operava forse l'insegnamento francescano di M.Parpani, la Direttrice del Collegio di Lovere.

La Vertua apparteneva alla Pia Unione dei Cuori di Gesù e di Maria, che la Capitanio aveva fondato per giungere alle anime religiose e sacerdotali.

Era composta di 12 Sacerdoti e di 72 Vergini, parte claustrali, parte secolari, simbolo del Collegio Apostolico. Seguendo proprio lo spirito francescano, i membri della Pia Unione si chiamavano fratelli e sorelle, mettevano in comune il bene spirituale, aiutavano i poveri.

E' più naturale pensare che fossero scelte con particolare oculatezza le Vergini che dovevano entrare in una così spirituale Compagnia, e se la Vertua fu giudicata degna di appartenervi, vuoI dire che, pur giovanissima, come del resto la fondatrice, dava affidamento sicuro di virtù.

Le due fanciulle avevano passato insieme quattro anni presso le Clarisse. Lo affermò la Vertua chiamata a deporre nel processo per l'introduzione della causa di Bartolomea presso il Vescovo di Brescia, nel1857: "L'ho conosciuta benissimo, perché fui in educazione insieme per quattro anni...". Che cosa pagheremmo per saperne di più di quei quattro anni, per conoscere i discorsi delle due fanciullette!

Ma dovevano essere già improntati a sentimenti tutti di cielo, esortazioni scambievoli a correre sulla via della perfezione cristiana.

Alla prima affermazione su citata la Vertua aggiunse nella sua disposizione: "...mantenni poi continua relazione con lei fino alla sua morte...".

Di questa relazione qualcosa ci è rimasto, come abbiamo detto: numerosissime lettere della Capitanio.

Della Vertua ho avuto modo di vederne una sola, datata da Malegno 3 Ottobre 1824 o 27, breve e di scarso rilievo, in cui Marianna firmandosi si dichiara affezionatissima parente di Mea.

Noto per inciso che la Vertua dava del tu a Bartolomea, che le scrisse sempre usando il voi, non so se per rispetto ad una più elevata posizione sociale o per altri motivi di delicatezza spirituale.

Di Bartolomea conosciamo il volto, la figura: vorremmo avere un ritratto anche di Marianna. Com'era? assomigliava, forse, alle fanciulle che ancor oggi vivono a Malegno, grave, seria, composta, austera.

Possiamo immaginarla sempre in moto per le viuzze del paese, diretta alla Chiesa, alle casupole dei poveri, con uno scialle nero in capo, gli occhi bassi, raccolta in preghiera o meditazione, come ancor oggi capita di vedere, anche se i costumi sono tanto cambiati.

E cambiato in parte è certamente anche Malegno. La popolazione allora viveva dell'agricoltura, dell'allevamento del bestiame, dell'artigianato, specie del ferro, ma i prodotti dei magri campi erano spesso assottigliati dall'inclemenza delle stagioni, il bestiame decimato dalle epidemie, l'artigianato rovinato dalla concorrenza dei prodotti delle fabbriche che andavano sorgendo altrove.

Si capisce come la miseria dovesse essere molta, in certi anni nera, e come le necessità urgessero da tutte le parti, facendo forza sul cuore della Vertua, che non si stancava di dare.

Alle vicende economiche si univano quelle politiche. Caduto Napoleone la Valcamonica passò sotto il dominio austriaco: fu percorsa dai fremiti annunciatori del Risorgimento, diede proseliti alla carboneria, partecipò ai moti del 21 con due giovani di Breno e di Pisogne, sarebbe intervenuta nel moto lombardo se fosse scoppiato.

Alla Carboneria succese la Giovane Italia.

Nel 1833, l'anno in cui morì la Capitanio, al primo nucleo di patrioti esistente in Valle, molti altri generosi si aggiunsero, e capi del movimento furono Gabriele Rosa e Gaetano Bargnani. L'Austria scoprì le file del movimento, molti riuscirono a fuggire, altri furono imprigionati, ma non per questo cessò il fermento!

Bartolomea era ormai in Paradiso, ma la Vertua fu a conoscenza, di queste vicende? Vi aderì almeno col cuore? E' impossibile per quanto immersa in Dio sia stata, che si estraniasse completamente dalle vicende pubbliche del suo paese, ma noi non ne sappiamo nulla.

Tra il 1831 e il 1850, la valle godette di un periodo buono, in cui rifiorì l'agricoltura e si risollevò l'industria del ferro. Nel 1848 fu percorsa dalla meravigliosa fiammata della riscossa, e da Breno partì il 16 aprile, un drappello di 112 volontari. Quattro erano di Malegno. Non seguiremo le vicende della Valle in quella prima sfortunata guerra del nostro Risorgimento, ma non possiamo fare ameno di pensare che la Vertua dovette esserne fortemente colpita:

Si tenga presente che si diffondevano idee non sempre ortodosse sulla religione, e che di esse si preoccupavano le anime timorate.

Urgeva più che mai pensare all'educazione dei fanciulli, e delle fanciulle, e si voleva conservare intatto il patrimonio prezioso tramandato dagli avi.

Dove era stato istituito un Oratorio, a somiglianza di quello fondato dalla Capitanio in Lovere, ferveva l'opera di assistenza e di vigilanza, e non possiam9 fare a meno di pensare che a ciò si adoperasse in Malegno Marianna Vertua!

La Valle Camonica partecipò attivamente alla fortunata guerra del 59, che la unì al regno di Sardegna, subito trasformato in regno d'Italia.

E di questo regno seguì le vicende. Frattanto un gran fervore di opere pubbliche, per migliorare le comunicazioni, animava tutti i paesi della Valle, intesi ad una migliore riorganizzazione amministrativa. Si gettavano ponti sul- l'Oglio, si progettava la strada del Tonale. Si tentò di migliorare l'agricoltura, l'allevamento del bestiame, mentre si profilava la crisi della lavorazione del ferro.

Una ferrovia doveva risalire la Valle, portando fra i monti la voce del progresso.



Bartolomea Capitanio e la sua corrispondenza con M.Vertua

E la Vertua? Continuava, è lecito pensare, il suo lavoro, unicamente attenta a mettere in pratica i consigli della santa amica, sparita nel fiore della giovinezza. Quante volte ne avrà riletto le lettere preziose, pregando e meditando! Bartolomea, frattanto, si avviava, lentamente ma sicuramente, verso la gloria degli altari. Nel 1857 fu iniziato, presso la curia di Brescia, il processo ordinario egli atti furono trasmessi a Roma. Nel 1843 i resti della Capitanio dal cimitero erano stati trasportati nella casa parrocchiale: nel 1858 nel conventino, dove ne fu fatta dal Vescovo la ricognizione.

Il 29 Giugno 1847 morì Vincenza Gerosa e con lei spariva, per la Vertua, quel che dell'amica diletta ancora restava. Ma nel 1866 Pio IX° nominò la commissione per l'introduzione della causa e nel 1869 fu rifatto a Brescia il processo. E' facile pensare che la Vertua doveva seguirne le vicende con animo commosso, sommersa in una dolcissima onda di ricordi che l'infervoravano a mettere sempre più in pratica i consigli che le aveva dato Bartolomea, con una sapienza tanto superiore alla giovane età.

Declinavano le forze fisiche, non l'energia spirituale che la spronava al bene!

Tanto che volle questo bene continuato anche dopo la sua morte. Non erano cessati i pericoli per la gioventù per il diffondersi delle nuove teorie che preludevano a profondi rivolgimenti sociali. Più che mai necessario appariva quindi essere vicina alle giovani, raccogliendole ed ammaestrandole.

Impossibile che la Vertua ignorasse quel che si faceva un po' dovunque, nelle principali città, per educare cristianamente la gioventù.

Particolarmente doveva conoscere l'opera delle Suore Canossiane. Ogni anno si recava a Rovato, nella Casa di queste Religiose, per fare piamente i S.S.Esercizi. Ne conobbe ed ammirò lo spirito, volle che dopo di lei esse continuassero, nel suo diletto Malegno, l'opera cominciata tanti anni prima, dietro l'esempio e l'impulso della Capitanio. Per questo dispose perchè qui le suore avessero l'abitazione e un patrimonio che assicurasse loro l'esistenza e quindi la possibilità di dedicarsi all'apostolato che le stava tanto a cuore, ma non ebbe la gioia di vederle installate. Morì il 24 Dicembre 1878 e le Suore fecero il loro ingresso in Malegno solo l'11 Febbraio dell'anno dopo.

Però in MaIegno le Canossiane ci sono ancora, ancora si prodigano apro delle fanciulle e della comunità tutta, quindi possiamo dire che attraverso queste Suore ancora Marianna Vertua lavora per il bene del suo paese.

Tratto da: "Marianna Vertua -Premio centenario dell'ingresso delle reverende madri canossiane a Malegno 1879 - 1979- di Giovanna Tagliaferri" Biblioteca comunale - Malegno.


Avvocato Mario Nobili

Mario Nobili nacque a Malegno il 6 agosto 1887, da Raffaele (farmacista) e Virginia Domenighini (casalinga). Frequentato il primo ciclo della scuole elementari a Malegno e il secondo a Breno, nell'autunno del 1898 intraprese gli studi ginnasiali all'Istituto "Rubini" di Romano Lombardia; passò poi al Liceo "Paolo Sarpi" di Bergamo e infine frequentò la facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Padova, laureandosi il 1° dicembre 1910 col massimo dei voti e la lode.

Completati gli studi tornò a Breno, dove intraprese l'attività professionale. Sino al 1921 la cittadina era sede di Tribunale; tra i colleghi di Nobili vi erano gli amici Gino Federici (originario di Esine), Guglielmo Ghislandi (Breno), Pompeo Morino (Edolo), come lui sorretti da una passione laica e da un anelito riformista, decisi a impegnarsi in ambito locale per la trasformazione della società.

La vita forense si coniugò con l'impegno amministrativo, dapprima come segretario comunale di Malegno e dal giugno 1914 come sindaco. Collocato su posizioni radical-progressiste, aderì al movimento della Democrazia sociale, capeggiato a livello nazionale da personalità di estrazione massonica. Suo stretto collaboratore era l'ing. Giovanni Caprani, già primo cittadino di Malegno dal 1894, ideatore e artefice di opere pubbliche quali la strada d'accesso alla ferrovia (1914-1915). In veste di Sindaco l'Avv. Nobili si preoccupò di alleviare le condizioni di vita dei settori più disagiati della cittadinanza: il 15 agosto 1914 la giunta municipale da lui presieduta introdusse il calmiere "del pane ed altri oggetti di prima necessità", nel novembre 1914 le provvidenze per i "rimpatriati" (emigranti che con lo scoppio della guerra europea dovettero ritornare in Italia), consistenti in opere di pubblica utilità, per una piena valorizzazione del patrimonio comunale. Con mille lire, somma, a quei tempi, cospicua, prelevate dalla succursale brenese della Banca Bergamasca, l'amministrazione Nobili, finanziò i lavori di sistemazione delle frane nel bacino del torrente Lanico; il sindaco sollecitò inoltre offerte private,"esclusivamente per dar lavoro ai rimpatriati poveri".

Durante il periodo bellico l'amministrazione municipale organizzò e finanziò "la spedizione mensile del pacco viveri ai prigionieri del comune appartenenti a famiglie disagiate" (delibera del 2 agosto 1917), sussidiò la sezione valligiana dell'Associazione mutilati e invalidi di guerra e il Patronato degli orfani dei contadini morti in guerra, sodalizi aventi sede a Breno e attivi in tutto il comprensorio camuno. La sensibilità del sindaco verso le ripercussioni della guerra sui civili fu acuita dal dolore ingenerato dalla morte al fronte del fratello Piccino, soldato di fanteria; un altro fratello, Girolamo, rimase ferito ed un terzo fratello, Giuseppe, tenete di artiglieria, fu catturato dagli austriaci e rimase in prigionia sino alla fine del 1918.

Tra le realizzazioni del periodo postbellico si annoverano nell'inverno 1918-19 il rifacimento dell'antico torchio municipale, il tracciato della nuova strada di Malegno-Ossimo-Borno (in alternativa al progetto di una rotabile impervia Cogno-Annunciata-Borno).

Tra gli obiettivi di maggiore rilievo perseguiti dall'amministrazione Nobili rientrò la valorizzazione delle risorse locali tramite la costruzione dell'impianto idroelettrico sul fiume Lanico, progettato dalla "Metallurgica Antonio Rusconi". Le trattative, avviate nella tarda primavera 1917, culminarono nella definizione di un'intesa tra il sindaco di malegno e i delegati della società, cav. Francesco Rusconi e avv. Maffeo Gheza; il protocollo sanciva al punto 5: "La Metallurgica Antonio Rusconi" si impegna a costruire e piazzare in territorio censuario di Malegno le centrali idroelettriche e le officine per la generazione e distribuzione dell'energia ritraibile tanto dalla derivazione di che in oggetto, come da ogni altra utilizzazione del torrente Lanico e suoi affluenti". Le controversie insorte successivamente col Cav. Rusconi in ordine alla mancata firma dell'accordo indussero alla fine il sindaco a lasciare l'incarico il 17.12.1919.

L'esperienza maturata come segretario comunale e come sindaco gli valse però, dal 15 luglio al 24 ottobre 1920, la nomina a Commissario prefettizio del comune di Pisogne.

La radicalizzazione politica del primo dopoguerra sospinse l'avv. Nobili dalle originarie posizioni laico-democratiche ai lidi del socialismo, nella prospettiva dell'avvento di una società liberata dello sfruttamento di classe.

Nel giugno 1918 si iscrisse a un sodalizio brenese di ascendenza risorgimentale, la Società operaia di mutuo soccorso "Giuseppe Garibaldi" di Breno fondata nel 1865 per l'emancipazione dei lavoratori manuali mediante l'aiuto reciproco, onde garantire agli aderenti una cassa mutua e una pensione di anzianità. Nobili entrò nei ruoli dell'associazione come socio onorario contribuente, ovvero come finanziatore escluso dai benefici sociali stante il suo status di lavoratore intellettuale.

Attivo nel movimento socialista, pose a disposizione gratuita della sezione del PSIun locale della propria abitazione in località Lanico di Malegno. Suo collaboratore fu il falegname Primo Martinazzi, referente valligiano dell'on. Domenico Viotto che da Brescia dirigeva la rete di partito in tutta la provincia.

Nobili si trovò suo malgrado coinvolto nelle tensioni politiche con i fascisti, sia nel paese natale sia a Breno. Il 29 ottobre 1922 l'abitazione di Lanico fu invasa con finalità intimidatorie dagli squadristi, che devastarono la stanza adibita a sezione socialista.

Il comune di Breno fu commissariato (l'allora prefetto di Brescia, Arturo Bocchini, futuro capo della polizia, designò quale commissario un suo sottoposto, esplicitamente incaricato di completare la sconfitta dei socialisti evitando il loro ritorno in municipio) e le organizzazioni politiche della sinistra decapitate.

A dispetto delle frequenti provocazioni, la maggioranza dei socialisti camuni, mantenne ancora per un triennio una forma di organizzazione e l'avv. Nobili rimase iscritto al PSI sino alla fine del 1925, fin quando cioè non fu chiuso l'ultimo spiraglio di libertà.

Nobili nel maggio 1924 si era ripresentato alle elezioni amministrative di Malegno, in alternativa alla lista di coalizione tra fascisti e popolari di destra guidata da Giovanni Bardella, uscendo eletto capogruppo della minoranza consiliare insieme ad altri due candidati socialisti, uno dei quali - il giovane Aldo Caprani, figlio dell'ing. Giovanni - avrebbe poi proseguito l'impegno politico nel partito comunista (culminato nel 1946 nell'elezione all'Assemblea Costituente). Il clima di intimidazione gli impedì di dedicarsi all'impegno amministrativo con la necessaria tranquillità d'animo, dato che i fascisti non tolleravano alcuna forma di opposizione consiliare. Il 27 aprile furono arrestati con Guglielmo Ghislandi una trentina di militanti, mentre altri diciassette loro compagni vennero denunciati a piede libero. L'avv. Nobili, sfuggito all'arresto si costituì dopo una decina di giorni; anch'egli fu condotto alle carceri di Brescia, imputato di violazione dell'art. 251 del Codice penale, ovvero di avere perpetrato attività antigiuridica ai danni dello Stato, concretizzatasi in eccitazione all'odio classista e in associazione a delinquere.

Durante la latitanza, il comando valligiano della Milizia stilò un rapporto informativo sul conto dell'avvocato brenese con un'evidente enfatizzazione del suo impegno politico, per rimarcarne la pericolosità: "Organizzò a fondo la sezione del partito massimalista di Malegno, ospitando la sede in una propria casa in frazione Lanico. La sua opera e la sua azione di propaganda si svolse precipuamente nell'ambito dei paesi di Cividate, Malegno, Ossimo, Borno e Lozio, ove gode molta influenza personale, e ove è coadiuvato da alcuni suoi fratelli e da Martinazzi Primo".

Tra i testimoni a carico dei socialisti valligiani vi fu il segretario zonale del Partito nazionale fascista per il comprensorio di Breno Cesare Perrone, secondo il quale sarebbe stato il personaggio più influente del gruppo di sovversivi di Malegno e dintorni.

Nel dicembre 1926 il professionista brenese fu ammonito dalla commissione provinciale: il provvedimento comportava una serie di riduzioni della libertà di movimento, dal divieto di parlare con più di due persone all'impossibilità di frequentare locali pubblici, sino al coprifuoco nelle ore notturne.

Qualora Nobili avesse dato l'impressione di mantenere una minima forma di comunicazione con altri antifascisti, sarebbe senz'altro scattato il provvedimento punitivo: l'invio al confino di polizia. Dopo sette mesi di vita ritirata, il 22 giugno 1927 l'ammonizione venne revocata.

All'antevigilia del Natale 1927, quando da pochi mesi aveva ripreso ad esercitare la propria attività professionale in una situazione di relativa tranquillità, Nobili fu privato della libertà personale, imputato di quei medesimi reati già contestatigli dal giudice istruttore di Brescia, reati dai quali era poi stato prosciolto dalla Commissione provinciale: violazione degli articoli 63 e 252 del Codice penale.

Il giorno stesso dell'arresto, l'avvocato fu trasferito - con le manette ai polsi - nella capitale del Regno, per essere rinchiuso con gli altri coimputati bresciani nel settimo braccio delle carceri romane di Regina Coeli, nella sezione riservata ai detenuti politici in attesa di giudizio.

A poco valsero le dichiarazioni di innocenza. Il 21 gennaio il Regio avvocato militare Carlo Felice lo rinviò al giudizio del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, l'organismo creato dal regime per colpire gli oppositori: " Le sue vedute erano quelle del cosiddetto cartello di opposizione. Ampiamente provati sono i suoi contatti politici col Ghislandi. Il Nobili nega ogni sua recente attività, ma a smentirlo basta la accertata esistenza, in epoca recente all'arresto, di una sezione socialista segreta di cui egli era presidente".

I magistrati incaricati del processo contro Viotto, Ghislandi e altri 136 socialisti erano di assoluta fede fascista: presiedeva la corte il generale di divisione Achille Muscarà, assistito da due ufficiali in camicia nera, il console della Milizia volontaria di sicurezza nazionale Claudio Pessani e il seniore Giuseppe De Rosis.

Durante la carcerazione l'avv. Nobili ottenne (a sue spese) copia di alcuni atti processuali, da lui evidenziati a margine o sottolineati nei passi più significativi col nerofumo difiammiferi spenti, in assenza della penna che gli era stata negata.

Durante ilperiodo di carcerazione la sua attività professionale fu gravemente compromessa, in quanto i colleghi - parecchi perchè aderenti al Partito nazionale fascista, altri per evitare di trovarsi a loro volta compromessi con un "sovversivo" - eludevano l'incarico di sostituirlo e di seguire le sue cause.

La sentenza emanata il 21 maggio 1928 dal Tribunale speciale differenziò la posizione degli imputati, a seconda del livello di coinvolgimento nell'attività politica: "Si può concludere che gl'imputati Morino Pompeo e Nobili Mario non hanno commesso i fatti che sono a loro attribuiti e devono andare prosciolti da ogni accusa. Che dubbia è la colpevolezza degli imputati Ghislandi Guglielmo e Salvetti Luigi in ordine ai fatti a loro attribuiti e devono essere prosciolti per non provata reietà. E' rimasta invece dimostrata la colpevolezza degl'imputati Viotto, Bianchi e Ghetti".

Scarcerati Morino e Nobili, Ghislandi fu assegnato al confino in una sperduta località della Basilicata; Viotto, Bianchi e Ghetti, condannati a pene variabilida 13 a 27 mesi di carcere, dovettero sottoporsi alla rigida disciplina della colonia di Ponza.

Restituito alla famiglia e all'attività professionale, Nobili visse a Breno sotto costante sorveglianza, essendo considerato dal prefetto di Brescia, dott. Marri, elemento pericoloso per l'ordine pubblico.

Nel 1944 l'avvocato decise di allontanarsi dalla Valcamonica, per non finire nuovamente agli arresti. Inforcata la bicicletta, si recò da alcuni lontani parenti in Veneto, a distanza di sicurezza da potenziali delatori brenesi. Sino all'aprile 1945 Mario Nobili condusse un'esistenza clandestina e raminga, portando con sè anche alcuni familiari per sottrarli a possibili rappresaglie.

Il Comitato comunale di Liberazione Nazionale, presieduto dall'ing. Giovanni Montiglio, conferì all'avv. Nobili il mandato di sindaco. Verso la fine del novembre 1945 si costituì il Comitato di solidarietà Comunale di Breno, incaricato della raccolta di sovvenzioni ed aiuti in favore delle famiglie disagiate. L'amministrazione municipale organizzò la distribuzione gratuita di pasti caldi ai cittadini, preparati dalle "Cucine del popolo"!, con la possibilità, per chi non risultasse iscritto nell'elenco dei poveri, di usufruire della mensa ad un prezzo minimo.

In campo tributario Nobili volle seguire un criterio di progressività delle imposte, nell'intento di riequilibrare le sperequazioni sociali.

Un ulteriore aspetto della figura di Mario Nobili merita di essere posto in evidenza: dopo la Liberazione, quando egli aveva raggiunto una posizione autorevole, si astenne da ogni rivendicazione e da qualsiasi azione nei riguardi di coloro che, negli anni del regime, lo avevano perseguitato per poi - durante la Repubblica sociale italiana - indicarlo come insidioso oppositore del nazi-fascismo. Dimentico dei torti subiti, egli fu anzi prodigo di testimonianze a favore di molti che, incarcerati e processati per collaborazionismo o per delitti compiuti negli anni 1943-45, si erano rivolti a lui per ottenere credenziali e dichiarazioni miranti ad attenuare le loro responsabilità.

L'amministrazione Nobili si occupò anche dell'istruzione pubblica, con l'intento di assicurare il diritto allo studio a tutti i giovani brenesi, istituendo nel novembre 1945 la quarta classe del ginnasio che, come la Scuola media e il Collegio municipale (presieduto dal prof. Adolfo Amaducci), era a carico delle finanze comunali.

Il 2 marzo 1965 moriva a Breno all'età di 78 anni l'on. Ghislandi, sostituito da Nobili alla presidenza della Società operaia. Il 5 giugno del 1967 si spegneva anche l'Avv. Mario Nobili.

L'azione di questi personaggi concorse, a vario titolo e con apporti personalizzati, a conquistare a Breno il ruolo di centro propulsivo della Valcamonica, fornendo al contempo un impulso notevole allo sviluppo della vallata nei campi economico, amministrativo e politico.

* Gli stralci qui pubblicati grazie alla cortese autorizzazione della famiglia Nobili sono tratti dal volume "Avvocato Mario Nobili (1887-1967)" curato dallo storico Mimmo Franzinelli.

Angelo Alfredo Argilla

Nato il 13.4.1915 a Breno da genitori "ignoti", passa a Malegno la sua giovinezza.

Sottoufficiale di cavalleria rientra in Valle Camonica dopo l'8 settembre 1943 (armistizio e fuga del Re) ed è tra i primi ad andare in montagna per sfuggire al reclutamento forzato da parte della sedicente Repubblica di Salò. Don Carlo Comensoli lo annovera nel suo "Diario" in data 14.12.1943, tra gli aderenti alle neocostituite Fiamme Verdi insieme a personaggi del calibro dei fratelli Levi, di Giacomo Cappellini, di Giacomo Mazzoli, di Giulio Mazzon, Ceriani, Tino Tognoli e Antonio Schivardi (vedasi in "Difendo le Fiamme Verdi" di Ermes Gatti). Diviene aiutante del Comando centrale delle Fiamme Verdi, staffetta e portaordini di Giacomo Cappellini al cui distaccamento, il C8, è aggregato.

Insieme a Vittorio Domenighini installa una radio ricetrasmittente clandestina a Malegno in via Sergola, dove abitava, ed è qui che viene prelevato il 15 ottobre 1944 insieme a Vittorio Domenighini dalla polizia politica ed internato a Mauthausen dopo essere stato inutilmente percosso, seviziato e torturato per costringerlo a rivelare i nominativi di altri partigiani e la localizzazione dei Comandi e dei depositi di armi e viveri. Si ha notizia della sua morte nel Lager di Mauthausen il 5 febbraio del 1945. Don Carlo Comensoli (ispiratore e coordinatore del movimento partigiano camuno) nel suo Diario registra la notizia dell'arresto con il seguente commento: <<.... dopo quella di Luigi Ercoli è la perdita più grave>>. Lo stesso Giacomo Cappellini, medaglia d'oro della Resistenza,così si esprime nella sua lettera del 16 ottobre 1944 al Comandante delle Fiamme Verdi Ragnoli: << .... sono rimasto solo dopo la presa del mio aiutante Argilla Alfredo. Purtroppo un fatto del genere non ci voleva>> (vedasi in "Giacomo Cappellini" di Don Daniele Venturini).

La figura di Angelo Alfredo Argilla, malegnese per origine (alcune fonti lo danno per fratello da parte materna del Vittorio Domenighini il che spiegherebbe anche il cognome di fantasia attribuitogli) o per elezione si staglia dunque come quella di un giovane animato da amore per la libertà, generoso ed altruista, pronto a rischiare la propria stessa vita pur di offrire un futuro democratico alla propria comunità in cui ha vissuto ed operato fino al momento della cattura e della deportazione. Curiosamente al "patriota" Angelo Argilla è dedicata una via dell'abitato di Erbanno (Darfo B.T.), come attesta la copia della foto che si allega, mentre nulla ricorda a Malegno il suo sacrificio. Per questo motivo l'Amministrazione comunale ritiene giusto onorarne la memoria intitolando a lui e a Vittorio Domenighini, che ne condivise il percorso umano e la tragica fine, la Palestra Comunale esistente nell'area scolastica, come tale mèta della gioventù malegnese cresciuta o destinata a crescere in un regime libero e democratico per il quale giovani come Argilla e Domenighini si batterono e diedero la loro vita.

Vittorio Domenighini

Nato a Malegno il 05/11/1921, ha 19 anni quando l'Italia mussoliniana dichiara guerra alla Francia e all'Inghilterra. Sfuggito ai reclutamenti forzati del dopo 8 settembre 1943 appoggia la formazione dei gruppi di sbandati e di renitenti sulle montagne del massiccio della Concarena e aderisce alle Fiamme Verdi. Ben inserito nella realtà malegnese, organizza con Alfredo Argilla ed altri la base radioricetrasmittente di via Sergola (all'epoca Via S. Gaetano), dove viene catturato insieme al predetto il 15 ottobre 1944. E' deportato nel campo di sterminio di Gusen dove muore nel maggio del 1945 per sfinimento e per le sevizie subite.

Anche Vittorio Domenighini, come Angelo Argilla (fratelli da parte materna, secondo alcune fonti), costituisce una figura di giovane patriota animato dai valori di libertà e democrazia che caratterizzarono componenti significative della gioventù camuna dell'epoca, istruita e non, disillusa da vent'anni di ipocrisia e di esaltazione bellicista e razzista del regime fascista.

Anche Vittorio Domenighini pagò con la vita e con un destino atroce la sua scelta di libertà ed è per questo che l'Amministrazione comunale di Malegno è onorata di proporlo alle giovani generazioni non certo come esempio da imitare ma come personaggio da ricordare, dedicandogli la Palestra comunale insieme ad Angelo Argilla.


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Ultimo aggiornamento
14 settembre 2022